Quasispecie virali

10/02/2021

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La teoria delle quasispecie, supportata da numerose dimostrazioni sperimentali, si può intendere come una visione in termini evolutivi del fenomeno delle infezioni, della patogenesi e della trasmissione virale con importanti risvolti che riguardano il fenomeno della resistenza agli interventi farmacologici preventivi e curativi.
Sappiamo che i virus hanno una grande capacità replicativa e che molte specie, in particolare i virus a RNA, vanno incontro a frequenti mutazioni che possono alterarne il tropismo, li rendono resistenti ai farmaci, gli permettono in qualche caso, niente affatto raro, di passare da una specie all’altra (1).

La teoria delle quasispecie applicata ai virus a RNA ci dice che una popolazione virale va vista come un insieme dinamico, evolutivo, costituito da una componente dominante (detta master) e una componente variabile, filogeneticamente correlata detta spettro mutante (o anche cloud o clan): qualcosa di molto diverso e più complesso che non una molteplicità di entità con una sequenza nucleotidica e un fenotipo ben definito. Questa visione ha implicazioni tanto nella comprensione della patogenesi quando nello sviluppo di strategie antivirali.

Un po’ di storia

All’inizio degli anni ’70 (2), Manfred Eigen (insignito del Nobel per la chimica nel ’67) formulò un’ipotesi circa le dinamiche molecolari all’origine della vita mettendo in relazione due differenti aree di conoscenza: la chimica e la termodinamica con le leggi dell’evoluzione darwiniana. Nel ’77, assieme Peter Schuster arrivarono alla conclusione che in un ambiente in condizioni termodinamiche instabili entità replicanti con un alto tasso di mutazioni raggiungono la massima capacità riproduttiva, e che queste entità replicanti non vanno intese come somma di singoli ma come un “clan”, un insieme di varianti la cui distribuzione è regolata da leggi chimiche e fisiche (legge dell’azione di massa) che denominarono “quasispecie”.
Negli anni ’70 Eigen organizzò diversi incontri promossi dal Max-Plank Institute e in uno di questi, Esteban Domingo presentò un suo lavoro che verteva sul sequenziamento del batteriofago Qβ dove Eigen riconobbe che queste varianti di un singolo clone si potevano considerare delle quasispecie.
Da quell’incontro emerse come idee sviluppate nell’ambito della chimica potevano trovare un corrispettivo nella biologia dell’evoluzione e che il concetto di organizzazione delle informazioni genetiche in forma di quasispecie aveva una rilevanza che andava oltre la speculazione teorica sull’origine della vita.
In seguito, vennero avviati diversi progetti di ricerca con l’obiettivo di supportare la teoria con riscontri sperimentali. Oltre agli studi condotti sui batteriofagi vennero studiati virus animali (foot-and-mouth disease), virus influenzali, l’HIV, il virus dell’epatite C, virus e viroidi delle piante che confermarono sperimentalmente i diversi aspetti precedentemente formalizzati in termini teorici.

Alcuni aspetti delle quasispecie

Nel seguito proponiamo una sintetica panoramica su alcuni aspetti relativi alle quasispecie. Il tema è molto complesso e richiederebbe una trattazione ben più dettagliata e articolata; l’obiettivo è quello di suscitare interesse e curiosità in questa visione evolutiva dei virus come popolazione senza la pretesa di fornire un quadro esaustivo dell’argomento in poche pagine.

RNA virus e quasispecie

Il settore di ricerca in cui la teoria delle quasispecie ha trovato chiari riscontri è quello dei virus a RNA. Ricordiamo che questi virus sono caratterizzati da un genoma di dimensioni molto contenute (dai 3 ai circa 30 kbp) e da un alto tasso di mutazioni dovute essenzialmente all’assenza o alla non perfetta funzionalità degli enzimi di proofreading (“correzione di bozze”) che agiscono nella fase replicativa mentre i virus a DNA, che esibiscono una stabilità genetica di un ordine di grandezza superiore, sono molto più stabili, meno soggetti a mutazioni.

L’evoluzione di una popolazione può essere rappresenta usando il concetto di “sequence space” (spazio delle sequenze) ad indicare tutte le possibili combinazioni che può assumere un genoma dove la distanza tra due sequenze ne rappresenta la diversità dei genotipi e in una qualche misura anche dei fenotipi .

Consideriamo un astratto, singolo genoma virale in un point-in-time iniziale. Dopo il primo ciclo replicativo avremo centinaia di altri genomi: molti di questi saranno copie fedeli mentre altri presenteranno una singola mutazione (non sempre la stessa). Ad ogni ciclo successivo questa diversificazione è destinata ad ampliarsi: i genomi mutati, se non difettivi si replicano a loro volta, in modo fedele o accumulando ulteriori mutazioni. Se a t0 il sequence space si poteva rappresentare come un punto nello spazio (il nostro ipotetico genoma iniziale) dopo un serie di passaggi replicativi avremo una rosa di punti che rappresentano altrettante varianti filogeneticamente legate tra loro. In termini di teoria delle quasispecie avremo una sequenza master (il nostro ipotetico clone iniziale) circondato da uno sciame, una nuvola, uno spettro di mutanti che interagiscono cooperativamente in termini evolutivi: come insieme e non come somma di distinte varianti.

Il fatto che una popolazione di virus a RNA non esista come una semplice popolazione di cloni identici tra loro che si riproducono e subiscono allo stesso modo la pressione selettiva ha una serie di implicazioni. Ad esempio, che il patogeno evolve nel corso della malattia, che alcuni mutanti o linee di mutanti correlate possono risultare più o meno patogenici e crescere o diminuire in frequenza, che possono esprimere un tropismo diverso da quello del clone originario, che possono essere più o meno resistenti ai farmaci e che tutti questi aspetti, collettivamente ne determinano l’evoluzione. Possiamo dire che lo spettro mutante è funzionale alla capacità di adattamento.

In termini classici, quando ci si riferisce ad una specie o sottospecie virale si considera il genoma di un isolato come “consensum sequence”, cioè la sequenza genomica prevalente tra diverse analizzate (3); alla luce della teoria e degli studi sulle quasispecie si vede come questo tipo di rappresentazione sia, da sola, poco adatta ed eccessivamente schematica a rappresentare la complessità e la dinamica dello spettro mutante.

Fitness e “survival of the flattest”

I processi fondamentali dell’evoluzione sono le mutazioni e la selezione positiva e negativa. Per selezione positiva si intende il processo che porta un determinato genotipo a diventare dominante all’interno della popolazione mentre per selezione negativa si intende il processo complementare che porta all’eliminazione dei genotipi che risultano non adatti. Il parametro che misura l’adattabilità all’ambiente di un organismo e che si riflette nella sua capacità di riprodursi è detto “fitness”.

...il concetto di fitness

Il fitness (idoneità) rappresenta la capacità adattativa e riproduttiva di un individuo all’ambiente; con fitness darwiniana si intende la probabilità che un individuo con un dato fenotipo sopravviva e trasmetta il proprio patrimonio genetico alle generazioni successive; è un indice della superiorità riproduttiva.
Nei virus il concetto di fitness (4) viene definito come la capacità di produrre una progenie infettiva in un dato ambiente. È leggermente diverso dalla fitness darwiniana (informazioni genetiche passate alla generazione successiva) in quanto l’host (il soggetto infetto) ha una durata della vita che è finita e il virus deve riuscire ad infettarne altri per sopravvivere: di qui l’accento sulla capacità di trasmissione. Il fitness replicativo misura la diversa capacità di replicazione di due o più isolati di una stessa specie virale; si misura in vitro, ex vivo o in vivo con due varianti o in tempi diversi (superinfezione con un altro ceppo) in modo da poter valutare la capacità replicativa in un ambiente competitivo.
Il fitness trasmissivo è di particolare interesse visto il ruolo che gioca la capacità di trasmissione nella valutazione complessiva del concetto di fitness. Gli studi in questo campo non sono semplici: la maggior parte sono stati condotti su virus delle piante dove la trasmissione è veicolata da insetti, esponendo un soggetto naive ad uno infetto o valutando l’escrezione virale.
Ancora più complessa è la valutazione del fitness epidemiologico (la capacità di un ceppo virale di divenire dominante in un dato ambiente) che ovviamente non può essere condotto in laboratorio ma comporta studi osservazionali su distribuzione e prevalenza di un dato genotipo nell’ambito di una popolazione.

Nelle popolazioni virali, il fitness viene valutato nel complesso e non nelle singole varianti in quanto le interazioni, cooperazioni e interferenze tra i genotipi giocano un ruolo nel determinare la frequenza delle diverse varianti nello scenario di fitness complessivo.

...il concetto di fitness landscape

Lo scenario di fitness (fitness landscape) viene solitamente rappresentato in diagrammi bidimensionali o tridimensionali che sulle ascisse riportano lo spazio delle sequenze e il fitness sulle ordinate; un picco alto e stretto rappresenta la dominanza di un genotipo ad alta capacità e fedeltà riproduttiva; figure meno pronunciate in altezza che occupano un più ampio spazio di sequenze indicano popolazioni che si riproducono più lentamente con un tasso di mutazione più alto. Questo tipo di rappresentazione può essere statica o dinamica.
Consideriamo una variante con un alto tasso replicazione e basso tasso di mutazioni: avrà successo evolutivo proprio per la sua capacità di creare una numerosa progenie geneticamente identica a sé stessa: nello scenario di fitness questa popolazione verrà rappresentata come un picco molto stretto e alto (fitness elevato e scarsa diversificazione genotipica). Nel caso dei virus a RNA che hanno ugualmente grande capacità replicativa ma con tassi di mutazione molto alti e conseguentemente cloni meno performanti avremo una figura meno pronunciata in altezza (fitness) ma con una base più ampia (maggiore occupazione nello spazio delle sequenze e quindi maggiore diversificazione genetica).

Nelle popolazioni virali l’assunzione darwiniana che vede la dominanza dell’individuo/specie con maggiore fitness viene riferita con l’espressione “survival of the fittest”; nel caso dei virus questo non è sempre verificatp ma in molti casi è il flattest a vincere la battaglia evolutiva: situazione nota come “survival of the flattest”: questo perché una variante collocata su un picco di fitness ma con altro tasso di mutazioni tenderà a produrre una progenie con fitness inferiore ma con una più ampia base nello spazio delle sequenze. Esistono diverse dimostrazioni sperimentali di questo fenomeno in cui sopravvivono i meno adatti. A titolo di esempio la soppressione di ceppi del virus della stomatite vescicolare ad alto fitness ad opera dello spettro mutante a fitness inferiore (5), ma vi sono altre dimostrazioni con virus naturali e modificati (virus attenuati nei vaccini) e viroidi (6).
Nelle popolazioni virali si possono poi individuare altri fenomeni quali la complementazione e la cooperazione tra varianti dello spettro che favoriscono la coesistenza di varianti diverse. Un esempio di complementazione è dato da varianti che codificano proteine funzionali inutili per sé stesse ma utilizzate da altre varianti, il che implica che il fitness di una variante può essere inferiore a quello della popolazione nel suo insieme. La cooperazione si ha quando due diversi genomi danno origine ad un nuovo fenotipo attraverso l’interazione tra due proteine varianti (7).

Complementazione, cooperazione, soppressione sono altrettanti fenomeni che emergono tra componenti dello spettro mutante; non siamo quindi in presenza di più varianti che evolvono in modo indipendente ma di una sorta di “corpo sociale” che è sottoposto ai meccanismi selettivi nel suo insieme.

Catastrofe dell’errore e mutagenesi letale

I virus a RNA hanno una grande capacità di esplorare ampie regioni dello spazio delle sequenze ma non tutte le sequenze possibili in termini combinatori danno luogo a genomi e quindi a particelle virali funzionali. Secondo la teoria evolutiva il costo pagato con le mutazioni disfunzionali (anche dell’ordine del 60%) è compensato in termini di adattabilità alle mutazioni ambientali.
Le quasispecie rimangono in equilibrio fino a quando non si raggiunge un valore soglia (error threshold) oltre il quale l’accumularsi di mutazioni innesca una valanga di ulteriori errori che porta all’estinzione della sequenza master; Eigen ha paragonato questo fenomeno al cambio di stato della materia al punto di fusione o evaporazione (8).
Gran parte dei virus a RNA hanno un tasso di mutazione vicino alla soglia di errore e diversi esperimenti hanno dimostrato che mutageni chimici possono portare a riduzioni drammatiche del titolo virale: da qui l’interesse per individuare agenti farmacologici che possano indurre la mutagenesi letale (es. ribavirina) anche se restano ancora molti aspetti da chiarire in merito alla dinamica/correlazione tra carico di mutazioni ed estinzione.
Le mutazioni sono un’arma a doppio taglio: se da un lato superando la soglia di errore si può andare incontro all’estinzione (mutagenesi letale), dall’altro l’evoluzione adattativa può fare si che una popolazione in pre-estinzione possa dare origine a nuovi sciami mutanti che esprimono resistenza agli antivirali e/o alle difese immunitarie. Inoltre, un virus può sviluppare resistenza a questi farmaci ad esempio spostandosi in una regione piatta del paesaggio di fitness dove le mutazioni sono prevalentemente neutre (mutazioni che non inficiano le possibilità di sopravvivenza e riproduzione).

L’eterogeneità della popolazione rappresenta un fattore determinante per la virulenza. Sono stati condotti interessanti esperimenti (9) in cui è stata individuata una variante di poliovirus resistente alla mutagenesi letale che indichiamo come popolazione “stabile” caratterizzata da un tasso di mutazioni inferiore e maggiore stabilità genetica rispetto al wild-type che indichiamo come “instabile”. Un gruppo di topi è stato infettato con la popolazione “stabile” e un isolato neurovirulento; l’altro con la popolazione “instabile” e sempre lo stesso ceppo virulento: solo i topi di quest’ultimo gruppo hanno sviluppato la malattia mentre gli altri no. In entrambi i gruppi era presente il ceppo virulento ma questo ha potuto esplicare la sua azione patogenica solo grazie a interazioni cooperative con una popolazione eterogenea di mutanti; in altri termini la diversificazione genetica è stato un determinante della virulenza.

Eventi di bottleneck

Con bottleneck (collo di bottiglia) si intende un qualunque evento che comporta una drastica riduzione di una popolazione (umana, animale, microrganismi) e una conseguente drastica riduzione della variabilità genetica all’interno della popolazione superstite.
Gli eventi di bottleneck che causano una riduzione della popolazione sono comuni sia nel corso dell’infezione (risposta immunitaria, farmaci, ecc.) quanto nella trasmissione: la quantità di virus che passa ad un host suscettibile, sia per trasmissione aerea (aerosol, droplets) che per contatto con secrezioni del soggetto infettante è minima e non è detto che sia rappresentativa della popolazione del soggetto infettante. L’eterogeneità della popolazione virale e la (relativamente) minima quantità di particelle virali coinvolte nell’evento trasmissivo naturale fa sì che l’outcome dell’infezione possa essere parzialmente diverso da caso a caso (l’evento di bottleneck ha selezionato varianti diverse), che dipenda dalla quantità (una grande quantità di particelle virali rappresenta in modo più compiuto lo spettro master e lo spettro mutante dell’infettante mentre una piccola quantità no).

Come sopra accennato, gli eventi di bottleneck possono intervenire anche nel corso di una infezione ad esempio restringendo/selezionando varianti con un diverso tropismo.
Sebbene gli eventi di bottleneck comportino una generale diminuzione della fitness (ipotesi dell’ ingranaggio di Muller ) è stato dimostrato che esistono diversi processi molecolari che consentono un recupero di fitness e quindi una ripresa della crescita della popolazione a seguito di un evento di restrizione.
In assenza di bottleneck molte varianti che presentano rare mutazioni andrebbero incontro all’estinzione a causa della selezione negativa conseguente al loro scarso fitness; se questo genoma riesce a sopravvivere ha la potenzialità di avviare un nuovo corso evolutivo assumendo un diverso fenotipo e ricostruendo un diverso spettro mutante. Gli alti tassi di mutazione conferiscono una capacità adattativa in molteplici situazioni, inclusi gli eventi di bottleneck.

Memoria delle quasispecie

Per memoria delle quasispecie si intende un tipo di memoria molecolare che è stato verificato sia nei virus RNA litici che nei retrovirus. Nel corso di una infezione naturale, tanto la sequenza master che lo spettro mutante sono sottoposti, come insieme, a pressioni selettive che ne alterano l’equilibrio facendo sì che alcune varianti presenti nello spettro mutante tendano alla dominanza. Si è visto che rimuovendo il vincolo selettivo queste varianti rimanevano ad un livello molto più alto di quanto la normale diversificazione conseguenza delle mutazioni avrebbe prodotto. In altri termini: la pressione selettiva favorisce alcune varianti rispetto ad altre e queste, frutto della pressione selettiva, mantengono una rilevanza anche quando cessa lo stimolo che ne ha favorito l’espansione: un meccanismo analogo in termini funzionali a quello che vediamo nella immunità adattativa.
La memoria è quindi una proprietà collettiva che dipende dalla storia evolutiva e conferisce un vantaggio alla quasispecie nel rispondere alle stesse pressioni selettive già sperimentate in precedenza. La memoria si perde quando la popolazione va incontro ad un collo di bottiglia che esclude le minoranze.
Nei retrovirus (10), in cui il ciclo replicativo prevede l’integrazione nel DNA cellulare si ha una seconda forma di memoria data dalla presenza di copie provirali che hanno un tasso di replicazione molto basso e ad alta fedeltà (il codice virale integrato nel DNA si replica avvalendosi dei meccanismi di proofreading e segue i ritmi della replicazione cellulare); in pratica l’integrazione nel DNA si può leggere come una sorta di reservoir di sequenze virali che possono ricomparire in seguito all’attivazione (quando il codice genetico provirale diventa produttivo in seguito ad un qualche stimolo).
L’esistenza della memoria ha implicazioni sul fronte delle terapie antivirali: ad esempio, somministrando una seconda volta lo stesso o analogo farmaco ci si può trovare davanti a delle varianti che ora risultano resistenti a quel farmaco, favorendo così meccanismi di evasione.

Le dinamiche delle quasispecie in relazione a vaccini e trattamenti

Gli interventi farmacologici che sono stati sviluppati per contrastare i virus patogeni si possono vedere come vincoli selettivi esterni che incidono sulla composizione/evoluzione della popolazione virale sia nel singolo soggetto che a livello epidemiologico. Che si tratti di vaccini o di antivirali bisogna tenere presente che questi interventi agiscono su meccanismi evolutivi complessi, potenzialmente innescando forme di resistenza, di evasione ed eventuale trasmissione.

Verso la metà del secolo scorso, la scoperta e la sintesi di sempre nuove classi di antimicrobici ha alimentato la speranza che le infezioni batteriche fossero un problema sulla via della soluzione definitiva: poi ci si è accorti del fenomeno dell’antibiotico resistenza e l’emergere dei batteri multiresistenti; altrettanto, forse eccessivo ottimismo lo si è visto con gli antivirali, i vaccini e in ambito oncologico. Purtroppo, malgrado gli interventi che finora si è riusciti a mettere in campo gli agenti patogeni, microbici o virali che siano, riescono sempre a trovare un percorso evolutivo adattativo.

Uno dei maggiori problemi delle terapie antivirali, ma anche dei vaccini e dell’immunoterapia (anticorpi monoclonali), è legato all’emergere di varianti in una popolazione dinamicamente diversificata e in rapida evoluzione come è quella delle quasispecie in grado di resistere all’azione farmacologica. Questo fenomeno ha un impatto sia sul paziente in termini di fallimento del trattamento che a livello di popolazione in quanto può portare all’emergere di varianti resistenti. Infine, non bisogna dimenticare il potenziale impatto ambientale (11) conseguente al largo impiego di antivirali; i loro metaboliti, solitamente escreti attraverso le urine, finiscono per inquinare le acque ed essere assunti da animali che fungono come reservoir dove potrebbero concorrere anche per questa via allo sviluppo di ceppi resistenti.

Vaccini

Siamo convinti che i vaccini rappresentano una delle più grandi conquiste della medicina e queste brevi note, che potremmo chiamare "cause of concern" in questo specifico ambito, non vanno intese come espressione di esitazione o scetticismo vaccinale.
Sappiamo che spesso i virus circolano in una o più varianti, quindi un vaccino deve presentare gli stessi profili antigenici per poter suscitare una risposta immunitaria efficace: ad esempio un vaccino che presenta un profilo antigenico per la variante1 può non essere ugualmente efficace per la variante2.
I vaccini a virus ucciso o attenuato, in quanto presentano l'intero virus al sistema immunitario, suscitano una risposta policlonale dei linfociti B e T rivolta ad un certo numero di proteine virali e questo spiega perché non si è registrata l'emersione di ceppi mutanti con questi vaccini (morbillo, varicella, poliovirus, ecc.). In determinate situazioni, la policlonalità della risposta immunitaria (naturale o indotta dal vaccino) può però dare luogo al fenomeno dell' ADE (33) e altre condizioni che si risolvono in una maggiore suscettibilità dei soggetti vaccinati (34).
Anche i vaccini che hanno come target una specifica proteina virale (ad esempio i nuovi vaccini a RNA contro il SARS-CoV-2) possono presentare delle criticità. Una risposta anticorpale monoclonale, rivolta ad un target proteico specifico può favorire l'emergere di varianti che sfuggiranno poi a quel tipo di risposta; ciò può avvenire con l'infezione naturale, con vaccini che suscitano una risposta selettiva o con l'uso di anticorpi monoclonali (35).

I vaccini raramente proteggono tutti gli individui vaccinati per varie ragioni: polimorfismo dei geni implicati nella risposta immunitaria, stati di immunosoppressione, tempo non sufficiente tra immunizzazione ed esposizione, differenze antigeniche tra vaccino e ceppi circolanti, anticorpi materni (nei cuccioli), ecc.

La maggior parte dei vaccini protegge dalla malattia ma non dall’infezione.
Un vaccino viene considerato protettivo quando è in grado di indurre un’immunità totale (o sterilizzante) tale da impedire l’instaurarsi dell’infezione (rari casi) o quando garantisce l’assenza o l’attenuazione della sintomatologia anche in presenza di un qualche grado di replicazione virale e quindi una più o meno ridotta capacità di trasmissione (la maggior parte dei vaccini).
Ad esempio, il SARS-CoV-2 replica inizialmente nelle alte vie respiratorie e solo in seguito colonizza i polmoni e gli altri organi; la prima barriera immunitaria è quindi data dal NALT (Nasal Associated Lymphoid Tissue) e non dall’immunità sistemica. In questo caso un vaccino intranasale avrebbe la potenzialità di essere sterilizzante in quanto agisce sul sito di prima replicazione mentre i vaccini intramuscolo agiscono primariamente sull’immunità sistemica (12).
In termini del raggiungimento dell’immunità di gregge ci sono ovvie implicazioni nel caso di vaccini non sterilizzanti: un soggetto immunizzato con un vaccino sterilizzante non può infettarsi mentre un soggetto immunizzato con un vaccino non sterilizzante può agire, in una qualche misura, come vettore del contagio. Inoltre, quando un virus circola in una popolazione che vede individui vaccinati e non vaccinati o che sono stati soggetti a fallimento vaccinale, c’è sempre la possibilità (almeno teorica) che insorgano varianti ad alto fitness che possono rimanere confinati nell’host o diffondersi ad altri individui suscettibili come effetto della pressione selettiva esercitata dal vaccino stesso: vi sono esempi di ciò in ambito di vaccini animali (13) e umani (epatite A e B).

...Marek’s Disease: evoluzione della virulenza

Il virus che causa la malattia di Marek (Mardivirus - MDV) appartiene alla famiglia degli Herpesviridae; è un virus enveloped, a doppia elica di DNA e caratterizzato da un ciclo litico e un ciclo latente; durante il ciclo latente il DNA virale si insedia nel nucleo sotto forma di episoma e sfrutta i meccanismi cellulari per replicarsi. Il Mardivirus infetta i linfociti B e T, causa immunoppressione, sintomi neurologici centrali e può attivare processi neoplastici (linfomi). Visti i gravi danni che questo patogeno infligge all’industria del pollame vi è stato un importante sforzo per la produzione di vaccini; a partire dagli anni ’70 sono stati introdotti diversi tipi di vaccini (non sterilizzanti) in conseguenza dell’emergere di sempre nuovi ceppi maggiormente patogenici. Le ragioni precise non sono del tutto chiarite sebbene le si possa ricondurre agli effetti che la pressione selettiva determinata dalle campagne vaccinali possa ripercuotersi su trasmissione e virulenza; è comunque riconosciuta la correlazione dell’evoluzione della virulenza con le campagne di vaccinazione di massa, condotte oltretutto in ambienti di per sé favorevoli alla trasmissione dei patogeni quali sono gli allevamenti intensivi (14).

L’uso sistematico di vaccini, in presenza di alta circolazione virale, tanto nella popolazione umana che in quella animale (in primis allevamenti) potrebbe costituire un fattore di accelerazione nell’evoluzione dei virus anche se al momento, per via della storia relativamente breve delle pratiche vaccinali si è ancora nel campo delle ipotesi.

Antivirali

La prima segnalazione di resistenza ad un antivirale (15) risale al 1961 e riguardava un inibitore di alcuni enterovirus; successivamente, la selezione di mutanti resistenti è stata ampiamente dimostrata sia in vitro che in vivo.
Tradizionalmente la possibilità che un farmaco possa selezionare mutanti resistenti è una prova di selettività, cioè che il farmaco agisce effettivamente contro il virus senza danneggiare la cellula.

...Indice terapeutico e concentrazione inibitoria

La gran parte degli antivirali hanno come bersaglio le diverse fasi del ciclo riproduttivo del virus e quindi devono entrare nella cellula (solo pochi farmaci agiscono quando il virus è nello spazio extracellulare e/o nella fase di adsorbimento/rilascio); da qui il problema di tossicità “intrinseca” di questi composti.
Per valutare l’efficacia terapeutica (TI, therapeutic index) di un farmaco (non solo relativamente agli antivirali) si utilizza il rapporto tra il parametro che misura la citotossicità (CC50) e la concentrazione inibitoria (IC50); la citotossicità indica la concentrazione del farmaco in grado di uccidere il 50% delle cellule infette (da qui il 50) mentre la concentrazione inibitoria indica la concentrazione necessaria per ridurre la replicazione virale del 50%. Più alto è il valore di TI (almeno 10 come soglia di accettabilità) più è predittivo di una buona efficacia del farmaco.

Il fatto che possano essere selezionati mutanti resistenti è però un grave problema sia perché si va incontro al fallimento del trattamento che per ragioni epidemiologiche in quanto queste varianti possono essere trasmissibili inficiando/limitando l’efficacia del farmaco a livello di popolazione.

La teoria delle quasispecie spiega che una popolazione di virus non può essere intesa come un insieme di genomi identici che vanno incontro a mutazioni casuali per due ordini di ragioni: una statica e una dinamica. Innanzitutto, in termini statici, lo spettro mutante va visto come un vasto reservoir di varianti genotipiche/fenotipiche che possono includere, tra l’altro, varianti con capacità di evasione (escape); in termini dinamici la “composizione” dello spettro mutante varia continuamente, in modo casuale per via del tasso di replicazione e sotto la pressione selettiva esercitata dal sistema immunitario, dai farmaci e dalle condizioni ambientali, in conseguenza dell’interazione tra le varianti.

La selezione di mutanti resistenti, che possono essere preesistenti nella popolazione, dipende da molti fattori quali la dimensione della popolazione e la concentrazione dell’inibitore in un determinato sito replicativo (non tutte le cellule/organi sono ugualmente recettivi al farmaco), il tasso di replicazione e di errore e, ovviamente il fatto che la variante mutata resistente raggiunga un fitness superiore rispetto alle varianti non resistenti.

Si distinguono due principali classi di barriere all’emergere di un ceppo resistente, quelle genetiche e quelle fenotipiche. Con "barriera genetica" si intende il numero e il tipo di mutazioni necessarie per avere un fenotipo resistente; è abbastanza intuitivo che quando sono necessarie tre, quattro mutazioni per avere un fenotipo resistente la probabilità che ciò accada è molto più bassa di quando è sufficiente una singola mutazione, e questa è la principale ragione alla base delle terapie antivirali combinate.
In secondo luogo, il ceppo mutante deve superare una seconda barriera, detta fenotipica, o di costo di fitness. Quando la mutazione (es. la sostituzione di un aminoacido) che conferisce resistenza impatta una qualche fase del ciclo replicativo avremo una diminuzione della frequenza del mutante nella quasispecie: un maggior costo in termini di fitness impatta sulla probabilità di raggiungere la dominanza a meno che non intervengano mutazioni compensatorie tali da migliorarne il fitness senza intaccare la capacità di resistenza. La frequenza dei mutanti raggiunge livelli molto alti sotto la pressione selettiva del farmaco, sia quando questi presentano un costo di fitness basso (rappresentavano una minoranza considerevole) che alto (rappresentavano una minoranza sparuta nello spettro) per poi ritornare alla situazione di partenza una volta tolto il vincolo selettivo (sospeso il farmaco). La rimozione del vincolo selettivo (il farmaco) può portare all’incorporazione della mutazione resistente nel wild type riacquistando fitness e mantenendo la resistenza oppure, in modo non mutuamente esclusivo, ad una reversione della mutazione.

...il caso del sofosbuvir (inibitore nucleosidico dell'epatite C)

In uno studio (17) si è dimostrato il fenomeno della reversione della mutazione resistente. In questo caso la mutazione resistente era già presente nello spettro mutante dell’HCV 2b ad una bassa frequenza (0.05%) prima del trattamento: inizialmente si è vista una lieve riduzione (0.03%) a seguito dei primi giorni di somministrazione del sofosbuvir in monoterapia, mentre 4 settimane dopo il trattamento la frequenza dei mutanti resistenti raggiungeva il 99.8%: il ceppo resistente era cioè diventato dominante. Nel follow-up si è poi visto che la frequenza del ceppo mutato diminuiva portando nuovamente alla dominanza il wild type e l’analisi filogenetica ha stabilito che non si è trattato di una crescita del wild type ma di una reversione del ceppo mutante che ha nuovamente assunto le caratteristiche originarie.

Il caso sopra citato, ma ve ne sono altri, indica che le varianti resistenti possono anche essere preesistenti e non indotte dal trattamento antivirale.

Normalmente, la maggior parte delle mutazioni resistenti comportano un costo di fitness tale da comprometterne l’infettività ma la possibilità esiste. Ad esempio, la possibilità di modificazioni genetiche alternative a quella singola modifica che conferisce resistenza che portano ad un fenotipo sufficientemente resistente ma meno impattante sulla capacità replicativa. Se si pensa alla storia dei trattamenti dell’AIDS ci si rende conto che la possibilità che emergano ceppi resistenti non è così remota sebbene si tenda a privilegiare i fenomeni di resistenza come conseguenza degli alti tassi di mutazione e delle dinamiche delle quasispecie piuttosto che della trasmissione diretta di varianti resistenti da soggetti sottoposti alla terapia.

...Cenno alle terapie contro l’AIDS

Inizialmente l’AIDS veniva trattato con l’ AZT in monoterapia: per un po’ funzionava, ma poi emergevano ceppi resistenti. Vennero approvati altri nucleosidi analoghi (stesso target farmacologico) che venivano prescritti quando falliva il trattamento con AZT e in tal modo emergevano ceppi resistenti ai due farmaci: anche la somministrazione contemporanea portava ugualmente a ceppi multiresistenti. In seguito, si affiancarono altri farmaci con un diverso target (inibitori di proteasi virale, inibitori di integrasi, ecc.) che interferivano col virus su diversi fronti con risultati via via migliori anche se a tutt’oggi una terapia definitiva che porta all'eradicazione non è disponibile.

La trasmissione di ceppi resistenti, sebbene non così comune è possibile e ha un’incidenza non trascurabile (nell’HIV, il 4% causata da inibitori nucleosidi analoghi della trascrittasi inversa, 2.8% da inibitori di proteasi, ecc.: 10.1% nel complesso (18)). Tipicamente avviene con la prima infezione ma è possibile che un contatto con soggetti infetti che portano varianti resistenti siano causa delle cosiddette super-infezioni da HIV.

Una delle strategie per arrivare all’auspicata estinzione del virus sfrutta il fenomeno della catastrofe dell’errore (che si verifica quando il tasso di mutazioni supera una determinata soglia) attraverso l’utilizzo di agenti mutageni quali ad esempio la ribavirina. In un interessante esperimento (19) sui poliovirus si è visto un fenomeno di resistenza piuttosto inusuale: il virus rispondeva all’agente mutageno migliorando la propria fedeltà replicativa.

È anche stato proposto l’uso combinato di agenti mutageni e agenti inibitori in diverse combinazioni (sequenziale: prima inibitori e poi mutageni, due mutageni assieme con o senza inibitori, ecc.) ma anche in questo caso non mancano i problemi: ad esempio i mutageni possono aumentare la frequenza di mutanti resistenti agli inibitori e gli inibitori possono bloccare la replicazione di mutanti che favoriscono la defezione letale.

Alterazioni del tropismo, estinzione, virus emergenti

Il legame del virus con un recettore e il suo conseguente ingresso nella cellula rappresenta il passaggio necessario, anche se non sufficiente all’instaurarsi di una infezione in un host e/o in una specifica linea cellulare dell’host. Sappiamo che in un organismo esistono diversi compartimenti/linee cellulari che esprimono o non esprimono determinati recettori, che solo una o poche sostituzioni di aminoacidi nelle proteine virali di superficie possono alterare il riconoscimento di determinati recettori e quindi il tropismo, rendendo così quella linea cellulare suscettibile all’infezione con evidenti implicazioni nella patogenesi.
Con una popolazione virale omogenea e stabile l’infezione resterebbe compartimentalizzata a quel tessuto/organo che esprime i recettori adatti alla fase di adsorbimento (e che è ovviamente permissiva per tutte le altre fasi del ciclo replicativo). Poiché però una popolazione virale non è né omogenea né stabile, e l’emergere di mutanti con caratteristiche anche fenotipiche diverse sono eventi conseguenti al tasso di mutazione e alla pressione selettiva, alla dimensione della popolazione, ecc. possiamo dedurre che anche le alterazioni di tropismo non sono affatto eventi eccezionali.

Esistono molti studi in cui si dimostra come cambiamenti di uno o pochi aminoacidi nelle proteine di superficie del virus che conferiscono una diversa affinità con il recettore comportino alterazioni di tropismo quando non di suscettibilità di altre specie all’infezione, come nel caso del SARS-CoV (21); in questo ambito vi sono studi su herpes, HIV-1, FIV, parvovirus, ecc.

Abbiamo accennato ai diversi meccanismi che possono portare all’estinzione di un virus (Muller’s ratchet, deriva genetica, errore catastrofico) e sono noti almeno un paio di casi di estinzione. Il primo riguarda l’encefalite letargica (von Economo disease), un’epidemia scoppiata in Europa indicativamente nel 1915 e praticamente scomparsa verso la fine degli anni ’30; si sospetta l’eziologia virale anche se l’agente non è stato identificato. Il secondo caso è relativo al declino dell’incidenza del sierotipo C del FMDV verso la fine degli anni ’80 fino alla (presunta) estinzione all’inizio di questo secolo. Può essere che quel sierotipo sia rimasto confinato in qualche remota parte del mondo, può essere che sia stato rimpiazzato da un altro ceppo correlato. Analogamente è “sparito” il SARS-CoV (il MERS-CoV no, qualche caso si trova ancora (23)).

Le dinamiche che portano all’estinzione di virus o alla sostituzione di questi con altre varianti come anche all’emergere di nuove è un processo continuo ma estremamente accelerato rispetto a tutti gli altri organismi, determinato da ragioni/eventi ignoti o dal variare delle condizioni ambientali, molto spesso per cause umane.

Negli ultimi decenni si è assistito all’emergere o al riemergere di agenti virali patogeni per l’uomo al ritmo di circa uno all’anno (24): a volte con diffusione locale, in altri casi assumendo carattere pandemico. L’emergere di sempre nuovi agenti patogeni trova una spiegazione nell’alto grado di adattabilità dei virus (specie a RNA) conseguente al loro tasso di replicazione e mutazione ma non si possono sottovalutare altri elementi fondamentali che da un lato facilitano l’emergere di nuovi patogeni (deforestazione e occupazione delle terre, cambiamento climatico, ecc.), dall’altro ne amplificano enormemente le conseguenze (sovrappopolazione, urbanizzazione, globalizzazione).

Ponendo il focus sulle dinamiche delle quasispecie proviamo ad accennare a questo fenomeno del salto di specie (spillover). Supponiamo un virus a RNA che replica nel maiale e l’umano entra in contatto col virus attraverso le sue secrezioni; supponiamo anche che il virus del maiale debba presentare (aver acquisito) due specifiche mutazioni affinché possa replicare nell’ospite umano suscettibile. Nel maiale, quelle due mutazioni sono minoritarie e non fanno parte della sequenza di consenso ma possono essere o meno presenti nella popolazione delle secrezioni infettive.
Nei casi A e C , i virioni che presentano le due mutazioni necessarie per infettare l’uomo non sono presenti, o lo sono in numero troppo ridotto e quindi non c’è trasmissione; trasmissione che avviene invece nel caso B dove è presente il genotipo/fenotipo adatto in una numerosità sufficiente.
Il virus mutato, se dispone di adeguata fitness e se riesce a superare le barriere immunitarie dell’ospite umano avvierà un ciclo replicativo che vedrà come dominante la variante mutata e si creeranno le condizioni per avviare la trasmissione uomo-uomo. Nel passaggio maiale-uomo il genoma capace di suscitare l’infezione in un’altra specie era presente a bassa frequenza nello spettro mutante mentre nel caso del passaggio uomo-uomo la variante è diventata dominante (guadagno di fitness) e ha quindi maggiori probabilità di trasmissione. Una volta che il virus si è adattato all'ospite, ovviamente continuerà a mutare e potranno selezionarsi varianti più infettive, più o meno patogeniche come stiamo vedendo nel caso del SARS-CoV-2.

Come si vede da questo esempio schematico la trasmissione tra specie diverse è un evento improbabile ma non impossibile: nella specie “donor” si devono verificare le mutazioni capace di infettare la specie “recipient”; la trasmissione deve avvenire attraverso una secrezione che veda la presenza della variante mutata; il recipient deve essere suscettibile, meglio se immunocompromesso o comunque permissivo alla replicazione; l’infezione e la capacità infettante devono essere sostenute per un tempo sufficiente affinché l’infezione possa propagarsi ad altri individui della stessa specie.
Improbabile ma non impossibile, come il SARS-CoV-2, e tanti altri casi nel recente passato insegnano.

Impatti sulla patogenesi e severità della malattia

Sappiamo che gli effetti di un qualsiasi patogeno sono molto diversi da individuo ad individuo in funzione di una molteplicità di fattori: l’età, la risposta immunitaria, la presenza di comorbilità, la carica infettante, la genetica, ecc. Altrettanti fattori che fanno sì che un’infezione dello stesso agente abbia conseguenze molto, e spesso radicalmente diverse da soggetto a soggetto.

La teoria e i dati sperimentali ottenuti sulle quasispecie crediamo aprano una ulteriore prospettiva che aiuta a comprendere la complessità della patogenesi e dell’outcome delle malattie virali.
Come mai le infezioni sperimentali di FIV comportano severe conseguenze che non si registrano nella clinica? Non è che l’inoculazione del virus vs la trasmissione naturale (sangue/saliva) introduce eventi selettivi che incidono sul fitness e la prevalenza di mutanti che vanno ad occupare diverse aree nello spazio delle sequenze?
Come mai ci sono tanti casi di gatti FeLV positivi che godono di uno stato di salute accettabile e altri che passano da uno stato di malattia all’altro? O meglio, che al netto della risposta dell’ospite, della carica infettante e di tutto il resto, la popolazione virale che infetta l’uno e l’altro non sono esattamente identiche e non evolvono o si comportano allo stesso modo?

In un recente studio sul SARS-Cov-2 (25) sono stati analizzati 11 isolati da pazienti affetti dalla malattia con diversi gradi di severità e si sono viste diverse mutazioni, tra cui 6 relative alla proteina S; questi diversi isolati sottoposti in coltura hanno rivelato significative variazioni sia in termini di effetto citopatico che di carico virale, quindi di patogenicità.

Il virus dell’epatite C (HCV) (26) è caratterizzato da alta variabilità genetica, un’ampia popolazione e alta velocità di replicazione (1012 nuovi virioni al giorno in un individuo): questi dati combinati con il tasso di errore (10-4, 10-5) nella replicazione, portano ad assumere che ogni nuova particella virale differisca per almeno un nucleotide. Sebbene siano stati identificati diversi genotipi e sottotipi di HCV, questi vanno intesi a loro volta come quasispecie; la semplice classificazione in genotipi non è forse sufficiente come marker prognostico dell’infezione.
L’infezione da HCV avviene per contatto di sangue, ma la popolazione virale infettante non è sempre la stessa, in un caso ci sarà la prevalenza di certe varianti della quasispecie residente nel soggetto infettante, in un altro caso ce ne sarà un’altra e l’evoluzione della popolazione virale nei soggetti infettati dipenderà anche dalla risposta immunitaria e altri fattori. I soggetti infettati presenteranno quindi una quasispecie geneticamente correlata ma diversa, cosa che è stata dimostrata sperimentalmente (27).
Gli epatociti rappresentano il principale sito di replicazione dell’HCV ma sono stati anche individuati siti di replicazione extraepatica (cellule dendritiche, cellule mononucleate); analizzando le quasispecie isolate da fegato, sangue, ecc. si è visto che presentano sequenze correlate ma diverse, il che fa presumere che queste differenze si riflettano in un diverso tropismo verso una o l’altra linea cellulare.

Ma quando un agente patogeno si replica molto velocemente, con un alto tasso di mutazione dando origine a più profili antigenici, la risposta immunitaria deve essere tale da intercettare tutte queste varianti perché in caso contrario favorirà l’evasione di ceppi mutanti. Secondo uno studio (28), la ragione per cui si instaura l’infezione cronica da HCV è conseguente all’emersione di varianti mutate che sfuggono all’azione immunitaria quando, per diverse ragioni questa dispone di un repertorio di recettori antigenici troppo limitato. In termini forse troppo elementari possiamo dire che l’evoluzione della risposta immunitaria non sta al passo con l’evoluzione del patogeno.

Di studi sulle malattie virali feline in ottica di quasispecie ne abbiamo reperiti pochi, ma ne vogliamo citare alcuni senza pretesa di una ricerca bibliografica esaustiva.

In uno studio (29) condotto su gatti affetti da FIP si è visto che la composizione delle quasispecie differisce da organo ad organo (nei casi analizzati il virus è stato riscontrato in numerosi organi) nello stesso soggetto e che l’eterogeneità genomica è correlata con la severità della patologia e delle lesioni ai diversi organi.

In (30) si tratta di un caso documentato di superinfezione da FIV (una seconda infezione con un ceppo diverso) occorsa naturalmente, quindi senza la necessità di utilizzare alti dosaggi come nei setting sperimentali.

Quest’altro articolo (31) prende in considerazione il FCV (RNA non enveloped) e, oltre ad evidenziare come anche questa infezione si possa ricondurre nell’ambito delle quasispecie, riporta una serie di osservazioni interessanti: ad esempio che in un gatto FIV+ il progredire dell’infezione da calicivirus è stata molto più lenta che in gatti non infetti e ciò si può attribuire alla minore pressione selettiva esercitata sul virus in un host immunocompromesso (come peraltro riportato anche su HCV).

Conclusioni (?)

In questo articolo abbiamo provato ad introdurre il concetto di quasispecie, alcuni degli aspetti di rilievo, le implicazioni che questo ha nei trattamenti preventivi e curativi e nella patogenesi.

Decenni di studi e di clinica su terapie antivirali combinate in vario modo, non hanno ancora portato ad una soluzione definitiva per la quasi totalità delle malattie virali e gli stessi vaccini non si sono sempre rivelati come la soluzione “magica” promessa. Parliamo di HIV e HCV, in ambito veterinario di FMDV, MDV, aviaria: tutti patogeni a carattere epidemico/pandemico, di grande interesse sanitario ed economico; ambiti di studio che non soffrono certo della scarsità di risorse che cronicamente affligge la ricerca sulle malattie dei piccoli animali. Eppure, malgrado decenni di sforzi ingenti che hanno visto la partecipazione di ricercatori di ogni parte del mondo siamo ancora indietro: tanto nella comprensione del fenomeno dell’evoluzione dei virus in sé quanto nella messa a punto di strategie di contrasto efficaci. Soprattutto continuiamo a sottovalutare quando non ad ignorare le cause profonde che stanno alla base dell’emergere di sempre nuovi patogeni dal potenziale pandemico.

Cosa sarebbe la FIP (o la panleucopenia per dirne un’altra) se i gatti vivessero liberi, se non fossero costretti negli spazi ristretti dei rifugi? Cosa sarebbe stato dell’HIV se un cacciatore del centrafrica non si fosse avventurato a caccia di uno scimpanzé affetto da SIV? E lo stesso potremmo retoricamente dire delle decine di altri patogeni che negli ultimi quarant’anni hanno creato sconquassi più o meno vasti.
Le epidemie ci sono sempre state anche quando l’ambiente era integro, quando la numerosità della popolazione umana era ridotta, quando le attività antropiche erano limitate. Vero, ma non possiamo non prendere atto della “selezione positiva” che stiamo operando come specie nei confronti dei virus: deforestazione, caccia, promiscuità e distruzione di specie selvatiche, il mito della crescita indefinita in un pianeta che invece è finito.

Fonti:

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