Antivirali e meccanismi di resistenza

26/04/2020

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Nel gatto, ad eccezione del famciclovir e alcune formulazioni ad uso oculistico l’uso degli antivirali è molto limitato anche se come molti sapranno esistono farmaci molto promettenti per la cura della FIP (il GS-441524 e il GC-376) al momento non però disponibili presso i canali ufficiali.
Accenneremo al meccanismo d’azione degli antivirali e al fenomeno della resistenza che si sviluppa anche in questo ambito e non solo negli antibiotici.

Meccanismi d’azione degli antivirali

Ricordiamo che esistono centinaia di migliaia di specie e sottospecie diverse di virus, con caratteristiche e strategie replicative diverse: ad esempio, i virus a DNA replicano nel nucleo mentre i virus a RNA nel citosol; molti virus sono causa di infezioni acute, altri di infezioni latenti (es. retrovirus), i recettori di ingresso, il tipo di cellule che aggrediscono (es. cellule nervose, cellule in rapida riproduzione, ecc.) sono diverse. Proprio questa estrema diversificazione dei virus rende virtualmente molto difficile pensare ad un antivirale a largo spettro come invece abbiamo per gli antibiotici.
Inoltre, a differenza dei batteri che solitamente colonizzano gli spazi extracellulari, la gran parte del ciclo vitale dei virus avviene all’interno delle cellule dove avviene il ciclo replicativo e da cui fuoriescono solo per andare ad infettarne altre.

La strategia di contrasto delle infezioni virali, in umana come in ambito veterinario si basa sostanzialmente sulla prevenzione, cioè evitando l’esposizione e/o attraverso l’uso dei vaccini: il rischio di effetti avversi è minimo e costano poco mentre gli antivirali presentano solitamente non irrilevanti problemi di tossicità e sono generalmente di costo elevato. Però, per molte infezioni non esiste un vaccino (si pensi all’AIDS) o il vaccino non garantisce un alto livello di protezione (FeLV ma anche FHV-1) e fornire una copertura vaccinale, specialmente quando la popolazione suscettibile è vasta comporta problemi logistici non indifferenti.

Si possono sommariamente individuare tre linee di intervento nella terapia antivirale:


Da notare che i piani terapeutici contro le patologie virali utilizzano tipicamente diversi farmaci con bersagli diversi anche per contrastare l’emergere di ceppi resistenti.

Mentre gli antibiotici hanno azione batteriostatica o battericida, la quasi totalità degli antivirali sono virustatici, cioè non uccidono/distruggono il virus ma gli impediscono di replicare o di infettare altre cellule.

Ricordiamo che gli antibiotici non hanno alcuna efficacia contro le infezioni virali e si somministrano solo in presenza o nel rischio concreto di superinfezioni batteriche.

Interferoni

Gli interferoni (ve ne sono di tipo diverso) sono citochine secrete da cellule immunitarie (e da altri tessuti) che svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito dell’immunità innata come prima linea di difesa contro le infezioni virali mentre l’immunità adattativa, nella sua componente umorale (anticorpi) e cellulo-mediata (linfociti T citotossici), interviene solo in un secondo tempo.
Gli interferoni (3) si legano a specifici recettori cellulari che a loro volta innescano una cascata di segnalazione intracellulare che attiva una serie di reazioni difensive: si attivano processi di degradazione degli mRNA, sia di origine virale che fisiologica, interferendo quindi con la sintesi delle proteine e causando apoptosi; si assiste ad una aumentata espressione del MHC in modo da favorire l’azione immunitaria; si stimolano le cellule Natural Killer, ecc.

La tecnologia del DNA ricombinante (che risale agli anni ’70-80) consiste nell’introdurre un gene codificante per una determinata proteina in un altro organismo in coltura (solitamente un batterio) in modo che questo possa produrre la molecola voluta. L’insulina, diversi ormoni tra cui l’eritropoietina e gli interferoni sono prodotti con queste tecnologie. Ciò ha reso possibile l’uso terapeutico degli interferoni che vengono utilizzati nel trattamento di diverse patologie solitamente in combinazione con altri antivirali specifici.
Da ricordare poi che l’uso di interferone ricombinante di altre specie (IFN umano sul gatto ad esempio) stimola una risposta anticorpale diretta contro queste molecole che ne annulla l’efficacia.

Antivirali

Gli antivirali hanno come bersaglio le diverse fasi del ciclo replicativo del virus, ed in particolare: inibitori dell’adsorbimento (impediscono che il virus entri nelle cellule), inibitori della sintesi degli acidi nucleici (intervengono sulla replicazione del materiale genetico del virus), inibitori delle proteasi virali (inibiscono il taglio delle proteine virali neoformate), inibitori di integrazione virale (per quanto riguarda i retrovirus), inibitori in fase di rilascio (budding). Una categoria a parte è costituita dagli agenti mutageni.

Gli antivirali presentano due ordini di problemi che entrambi si riflettono sul profilo di tossicità di questi farmaci che è generalmente di una certa importanza.
Per poter intervenire sulle diverse fasi del ciclo di replicazione è necessario che il farmaco entri nelle cellule, nel citosol o nel nucleo; cosa che generalmente non avviene per gli antibiotici (ad eccezione di quelli che contrastano i batteri intracellulari) che agiscono selettivamente sulle cellule procariote, i batteri, e non sulle cellule dell’ospite (eucariote).
Inoltre, il farmaco non è in grado di individuare le cellule infette e quindi deve entrare in tutte le cellule o almeno in tutte le cellule di una certa linea cellulare.
Il secondo problema degli antivirali è la selettività: i virus, che sono parassiti intracellulari obbligati, nelle loro strategie replicative a volte utilizzano enzimi propri ma spesso si avvalgono di enzimi cellulari e sfruttano i processi metabolici della cellula. È intuitivo pensare che se un farmaco interferisce con un enzima cellulare (ad esempio una DNA polimerasi) che è “anche” usato dal virus, magari si blocca la replicazione virale ma si danneggia anche la cellula.

Questi ostacoli hanno fatto sì che ad oggi si disponga di un numero ridotto di principi attivi antivirali (in gran parte contro AIDS ed epatiti) rispetto, ad esempio, alla ampia gamma di antibiotici di cui disponiamo. Le principali classi di antivirali ricadono nelle seguenti categorie (4).

Inibitori di ingresso e uncoating

Il legame del virus con un recettore di membrana è il primo passo nel ciclo di replicazione virale e un possibile bersaglio di un antivirale. Ad esempio, il maraviroc è un antagonista di un co-recettore dell’HIV utilizzato nella terapia combinata. Il limite di questo approccio è che si va ad interferire con le normali funzioni fisiologiche dei recettori di membrana.
Altri farmaci, quali l’enfuvirtide agiscono come inibitori della fusione del virione con la membrana cellulare. Citiamo l’amantadina e la rimantadina come esempio di antivirali usati contro alcune specie di ortomixovirus (virus influenzali); agiscono bloccando l’uncoating del virus negli endosomi; si tratta di farmaci di relativa efficacia clinica, generano resistenza e hanno ceduto il passo al vaccino, più sicuro ed efficace nei confronti della normale influenza stagionale.

Inibitori della replicazione virale

Sono farmaci che intervengono nel momento centrale del ciclo riproduttivo del virus, cioè la replicazione del materiale genetico che può essere costituito da DNA o RNA e segue strategie molto diverse.
La maggior parte dei farmaci che interferiscono con la replicazione virale sono nucleosidi analoghi.

...Nucleosidi e nucleotidi

Sappiamo che il DNA, come anche l’RNA, sono macromolecole formata da lunghe sequenze ripetitive di molecole costituite da tre componenti: uno zucchero (il deossiribosio nel DNA e il ribosio nel RNA) cui è legata una purina (Adenina, Guanina) o una pirimidina (Timina, Citosina, Uracile, quest’ultimo nel RNA al posto della timina); purine e pirimidine sono collettivamente chiamati basi azotate.
L’insieme di uno zucchero e di una base azotata è detto nucleoside.
Un nucleoside che lega sull’OH in posizione 5’ un estere dell’acido fosforico è detto nucleotide; i nucleotidi sono dei nucleosidi dotati del “gancio” molecolare (il gruppo fosforico) che permette il legame con un altro nucleotide. I singoli nucleotidi si legano tra loro in 5’-3’ a formare una catena di DNA o RNA.

I nucleosidi analoghi sono molecole sintetiche di struttura simile ai nucleosidi biologici ma con modificazioni tali da alterarne la funzione in relazione ad uno specifico bersaglio: ad esempio sostituirsi ad un nucleoside biologico bloccando la polimerizzazione della catena di DNA/RNA.

Sono stati sintetizzati nucleosidi analoghi della timidina , citidina, guanosina e adenosina; tra i nomi più noti, l’AZT della timidina, la lamivudina della citidina, l’acyclovir della guanosina, la vidarabina dell’adenosina.

Tra i nucleosidi analoghi inibitori della DNA polimerasi ricordiamo l’acyclovir, e i suoi derivati tra cui il famciclovir che è un analogo della guanosina attivo contro alcune specie di herpesviridae (virus a DNA). L’acyclovir è un profarmaco che viene attivato in modo selettivo da una chinasi virale della timidina che aggiunge il primo gruppo fosfato mentre la forma attiva (acyclovir trifosfato) si ottiene grazie all’azione di una chinasi cellulare. Quando l’acyclovir in forma attiva viene incorporato della catena di DNA ne blocca l’ulteriore elongazione in quanto mancante del gruppo OH in 3’. L’aspetto interessante di questo farmaco è dato dal fatto che viene attivato da un enzima virale (la tirosina chinasi) e questo comporta che agisca solo sulle cellule infette riducendone la tossicità.

L’AZT o zidovudine, utilizzato nel trattamento dell’AIDS, è un inibitore di trascrittasi inversa (o DNA polimerasi RNA dipendente - RdDp), cioè dell’enzima virale che è in grado di trascrivere un RNA in cDNA (DNA complementare). È un nucleoside analogo della timidina che viene attivato (fosforilato) dalle chinasi cellulari e che, quando incorporato nella catena di DNA in costruzione ne causa la terminazione. Il fatto che l’AZT utilizzi chinasi cellulari lo rende meno selettivo e più tossico, ad esempio dell’acyclovir.

Sono stati anche sviluppati antivirali che inibiscono la RNA polimerasi RNA dipendente (RdRp) quali ad esempio il sofosbuvir contro l’epatite C e il remdesivir (sviluppato per Ebola e utilizzato attualmente sul COVID-19) il cui metabolita principale è il GS-441524 utilizzato sulla FIP.

Esistono anche inibitori non-nucleosidi della trascrittasi inversa (nevirapina, efavirenz, ecc.) che si legano in un punto diverso del sito catalitico enzimatico causando una modificazione conformazionale che ha l’effetto di comprometterne la funzionalità e quindi la sintesi della catena di DNA.

Inibitori di proteasi virale

Le proteasi virali svolgono un ruolo essenziale nella maturazione e nell’assemblaggio dei virioni attraverso il taglio di substrati proteici al fine di separare le singole proteine che andranno a formare la matrice, il capside e/o altre proteine funzionali della nuova particella virale. Si tratta principalmente di enzimi codificati dal virus stesso che svolgono un ruolo essenziale nel ciclo replicativo del virus e sono quindi obiettivo di farmaci specifici, gli inibitori di proteasi (es saquinavir).
Questi farmaci non bloccano la replicazione ma fanno sì che i nuovi virioni risultino immaturi e non infettivi. A questa categoria appartiene il GC-376, utilizzato in uno studio per il trattamento della FIP (5).

Inibitori dell’integrazione virale (retrovirus)

Sappiamo che i retrovirus (HIV, FIV, FeLV, ecc.) hanno sviluppato una strategia replicativa particolarmente interessante: sono dei virus a RNA che attraverso l’RdDp trasformano il proprio genoma in un cDNA che si integra nel genoma dell’ospite; raggiunto questo stadio possono continuare a replicarsi attivamente o entrare in una fase di latenza con una minima o nulla (es. FeLV regressiva) produzione di nuovi virioni. Questa integrazione avviene attraverso un enzima detto integrase che può essere anch’esso bersaglio di specifici farmaci come ad esempio il raltegravir. Da notare che l’integrase è un enzima solo virale quindi il farmaco viene ben tollerato. È usato nelle terapie combinate contro l’HIV ed è anche stato proposto per contenere la viremia nel FeLV potenzialmente inducendo lo switch allo stato regressivo (6).

Inibitori di rilascio

Si tratta di farmaci che hanno come target il rilascio dei nuovi virioni nello spazio extracellulare e che riguardano solo alcuni virus influenzali. Dopo la gemmazione (budding) questi virus rimangono attaccati alla cellula a causa del legame tra il recettore cellulare dell’acido sialico e l’emoagglutinina virale. È solo grazie all’azione dell’enzima virale neuraminidase che il virione di nuova formazione riesce a rompere questo legame e liberarsi nello spazio extracellulare. Farmaci inibitori della neuraminidase, come ad esempio l’oseltamivir inibiscono l’azione di questo enzima bloccando così il rilascio dei virioni.

Agenti mutageni

I virus a RNA hanno un tasso di mutazione vicino ad un valore soglia oltre il quale si avrebbe la perdita delle informazioni genetiche essenziali e si andrebbe incontro alla cosiddetta “error catastrophe”, cioè all’estinzione (7).

Il principio su cui si basano questi farmaci è proprio quello di aumentare il tasso di errore nella replicazione portando il virus oltre la soglia di errore sostenibile e quindi condannandolo all’estinzione: è l’unico caso di azione antivirale virucida. Tra gli agenti usati in questo contesto il più noto è la ribavirina sebbene non sia chiarissimo il meccanismo di azione (8).

Antivirali nelle infezioni retrovirali del gatto

Attualmente non esiste una cura o un protocollo per il trattamento delle infezioni retrovirali nel gatto (FIV e FeLV) anche se è stato proposto e sono state condotte sperimentazioni con diversi antivirali ad uso umano.
Oltre allo studio sul raltegravir (6) già ricordato, riteniamo utile citare un altro studio (9) focalizzato sul possibile utilizzo degli antivirali sviluppati contro l’AIDS per contrastare il FIV ed infine una review (10) sulla letteratura e stato dell’arte della chemioterapia antivirale nel gatto.

Meccanismi di resistenza degli antivirali

Il problema dell’antibiotico resistenza è ben noto, esiste una mole notevole di documentazione scientifica, è oggetto di politiche sanitarie e c’è una crescente consapevolezza dei rischi connessi da un uso improprio di questi fondamentali presidi medici: negli allevamenti, in medicina umana e anche nel ristretto ambito della veterinaria dei piccoli animali. Meno noto è il problema della resistenza agli antivirali (11), che esiste, e che può portare alla selezione di ceppi resistenti riproponendo uno scenario analogo a quello relativo all’uso degli antimicrobici, anche se su scala ridotta vista la minore diffusione di questi farmaci.

Il problema della resistenza agli antivirali risiede fondamentalmente nel fatto che le popolazioni virali non sono omogenee ma costituite da un insieme di varianti che evolvono nel corso dell’infezione e ciò vale specialmente per i virus a RNA che sono caratterizzati da un elevato tasso di replicazione: nel gatto riguarda FIV, FeLV e FCoV/FIPV. È abbastanza intuitivo immaginare che un farmaco selettivo per un determinato ceppo può esserlo meno per un una variante e che questa variante meno responsiva/resistente al farmaco possa sopravvivere, acquistare fitness e continuare a riprodursi sostenendo l’infezione, e in qualche caso a trasmettersi ad altri host.

Di questi aspetti evolutivi ne abbiamo trattato nell’articolo correlato sulle Quasispecie virali; nel seguito riporteremo alcuni casi specifici di resistenza agli antivirali e le implicazioni che hanno nella clinica.

Il caso HIV

Nei primi anni ’80, l’HIV veniva trattato con AZT e almeno inizialmente con buoni risultati (12): poi cominciarono ad emergere delle resistenze che resero la monoterapia inefficace. Verso la metà degli anni ’90 vennero introdotte le terapie antivirali combinate (cART) che portarono dei significativi miglioramenti evitando il progredire dell’infezione mantenendo la carica virale bassa, riducendo il rischio di trasmissione e migliorando il rapporto CD4+/CD8+: sostanzialmente puntando ad una cronicizzazione della malattia. Caratteristica delle diverse cART è l’uso combinato di principi attivi che agiscono in diversi stadi del ciclo replicativo del virus: inibitori nucleosidici e non della trascrittasi inversa, inibitori di proteasi virale, di adsorbimento e fusione, inibitori di integrasi: per ognuna di queste classi di farmaci sono stati sviluppati diversi principi attivi.

...esempi di mutazioni legati alle diverse classi di farmaci per l’HIV

Sono state individuate due forme di resistenza agli inibitori nucleosidici (NRTI) quali l’AZT. In condizioni di non resistenza questi farmaci si sostituiscono ad un nucleoside biologico bloccando l’elongazione della catena di cDNA in formazione: le mutazioni resistenti sono tali diminuire l’affinità della trascrittasi inversa con l’analogo nucleosidico per cui non viene più incorporato e quindi procede la sintesi della catena di cDNA. Un secondo tipo di resistenza comporta che il nucleoside analogo viene incorporato ma poi rimosso tramite una reazione chimica (pirofosforolisi).
Gli inibitori non nucleosidici (NNRTI) funzionano legandosi in un punto particolare dell’enzima trascrittasi inversa e bloccandone il funzionamento: in presenza di particolari mutazioni questo legame non avviene e quindi il farmaco diventa inefficace.
La fase di maturazione del virus necessita di un enzima virale con attività proteolitica: in assenza di questo passaggio si ha comunque il rilascio dei nuovi virioni ma questi risultano immaturi e non infettivi: gli inibitori di proteasi si legano a questi enzimi bloccandone l’azione: possono emergere mutazioni che attraverso una alterazione dei siti di legame e modifiche conformazionali dell’enzima virale rendono inefficace l’azione degli inibitori.
Gli inibitori di fusione (enfuvirtide) intervengono nella fase di fusione del virus con i recettori cellulari (i linfociti CD4+): anche qui possono emergere resistenze che limitano l’azione di questi inibitori anche se tali resistenze comportano una perdita di fitness; quando si sospende il trattamento si assiste ad una reversione del mutante verso il wildtype

Le diverse tipologie di mutazioni contro questo o quel farmaco non sono “mutuamente esclusive” e possono portare all’emergere di ceppi multiresistenti, che oltretutto risultano essere trasmissibili come descritto in questo case report (13), e altri casi sono stati riportati in precedenza.

Malgrado l’ampia varietà di antivirali utilizzabili nelle terapie combinate per l’HIV c’è sempre la possibilità che per caso, per via di trattamenti subottimali, per lo stato di immunodeficienza del paziente emergano ceppi multiresistenti per cui al momento non ci sono molte opzioni terapeutiche; inoltre, questo fenomeno può avere evidenti implicazioni di salute pubblica.

Il caso HSV (herpes simplex)

L’HSV (Herpes Simplex Virus) è un virus a DNA che utilizza, ma non in modo esclusivo una timidina chinasi virale (TK) nel processo di fosforilazione dei nucleosidi durante il processo di replicazione; farmaci quali l’acyclovir e derivati hanno come bersaglio proprio questo enzima (cosa che garantisce una bassa tossicità a questo composto) (14). Specie nei soggetti immunodepressi possono però emergere mutazioni a carico dei geni codificanti la TK rendendola inattiva e a quel punto viene sostituita da analoghi enzimi di origine cellulare permettendo comunque la replicazione. L’insorgere della resistenza porta all’inattivazione del bersaglio (la TK virale) ma la replicazione continua ugualmente utilizzando un enzima cellulare funzionalmente analogo.

Il caso HBV (epatite B)

Le epatiti virali rappresentano un gruppo di patologie acute che si possono cronicizzare, in qualche caso progredire fino all’insufficienza epatica acuta o degenerare in neoplasia (epatite B, C); sono sostenute da virus appartenenti a diverse famiglie (ad esempio HBV: famiglia Hepadnaviridae, a dsDNA di soli 3.2kbp, circolare incompleto; HCV: famiglia Hepacivirus, ssRNA+) ognuno dei quali in diversi sottotipi.

L’HBV è un virus a DNA costituito da una catena lunga e una incompleta che si replica in modo piuttosto complesso: una volta entrato nelle cellule (infetta solo gli epatociti) il DNA entra nel nucleo dove viene completata la catena corta e assume la forma di DNA circolare chiuso in modo covalente (cccDNA); ad opera di RNA polimerasi cellulari si formano diversi RNA virali che migrano nel citoplasma dove gli RNA pregenomici vengono tradotti nelle due catene di DNA e vengono prodotte anche le proteine virali dell’envelope: la maggior parte proseguirà la maturazione formando i nuovi virioni che verranno rilasciati, mentre una parte del genoma virale tornerà nel nucleo incrementando la riserva di cccDNA. Anche se con meccanismi molto diversi ci sono delle similitudini tra il comportamento dell’HBV e dell’HIV: entrambi trascrivono un DNA a partire da un RNA (con il relativo carico di errori) e il cccDNA si può considerare funzionalmente simile al DNA provirale dei retrovirus; caratteristiche che rendono plausibile pensare a questo virus in termini di quasispecie.
Le terapie con nucleosidi/nucleotidi analoghi (15) che hanno come target la trascrittasi inversa non impediscono lo stabilirsi dell’infezione persistente data dal cccDNA che agisce come reservoir dell’infezione ma anche come “memoria” di ceppi resistenti. La variabilità del virus e la lunga emivita degli epatociti che fungono come supporto di “archiviazione” dei mutanti fa sì che nel corso dell’infezione cronica emergano diversi mutanti in conseguenza della pressione selettiva imposta dalla risposta immunitaria e/o dalla terapia antivirale. L’acquisizione della dominanza è un processo lento in quanto i mutanti, preesistenti o meno e che abbiano sviluppato un fitness sufficiente, tendono a conquistare lo spazio di replicazione, cioè ad infettare cellule naive (non ancora infettate o di nuova formazione).
La disponibilità di uno spazio di replicazione e la barriera genetica (cioè numero e tipo di mutazioni necessarie affinché la variante diventi resistente e acquisti un fitness sufficiente) rappresentano altrettanti ostacoli all’acquisizione della dominanza oltre a fattori propri dell’host quali la risposta immunitaria, ecc.
L’insorgere della resistenza è quindi conseguenza di diversi fattori quali la disponibilità di uno spazio di replicazione, la potenza del farmaco (capacità di sopprimere il wildtipe) ma anche del livello della barriera genetica (capacità di essere efficace contro diverse varianti, possiamo dire meno selettivo): ad esempio, il telbivudine è un farmaco molto potente ma con una bassa barriera genetica e quindi presenta un tasso di resistenza intermedio.

Il caso HCV (epatite C)

Il virus dell’epatite C (HCV) è un ssRNA(+) caratterizzato da un alto tasso di replicazione e mutazioni che spesso causa una epatite cronica che può progredire in cirrosi o epatocarcinoma (16). Il virus raggiunge il fegato in forma ibridata alle LDL/VLDL; attraverso un meccanismo non del tutto chiarito entra negli epatociti per endocitosi e libera il proprio genoma, che, essendo un RNA a senso positivo può essere direttamente tradotto dai ribosomi, nello specifico in una poliproteina che contiene sia le proteine strutturali (del core, envelope, ecc.) che quelle non strutturali e in particolare la RdRp (NS5B). Questa unica proteina virale viene poi scissa nelle sue componenti ad opera di proteasi cellulari e virali. La replicazione avviene nel reticolo endoplasmatico modificato (membranous web) dove il genoma viene utilizzato come stampo dalla RdRp per generare nuovi cloni passando per un intermedio a senso negativo; i nuovi genomi possono essere nuovamente tradotti o assemblati in nuovi virioni. Normalmente l’RNA messaggero (17) viene degradato dopo essere stato tradotto in proteine da parte delle ribonucleasi e quindi non sarebbe utilizzabile come stampo per la replicazione: questi virus incorporano però elementi nel loro RNA e altri frammenti non codificanti (miRNA) che inibiscono l’azione delle ribonucleasi.

L’HCV, per via del suo alto tasso di replicazione / breve emivita (1010 / 1012 virioni al giorno, 2-5 h emivita), l’assenza di proofreading della RdRp, la capacità di infettare non solo epatociti (e quindi di ripetuti eventi di bottleneck intra-host) presenta le caratteristiche delle quasispecie virali: ciò significa che esiste in un ceppo dominante e uno spettro mutante che può presentare anche varianti resistenti preesistenti all’inizio del trattamento.
Le terapie anti epatite C storicamente impiegavano interferone alfa pegilato e ribavirina cui di recente (2011) si sono aggiunti altri farmaci che agiscono direttamente sulla fase replicativa del virus e sono detti DAA (Diretti Acting Antiviral) (18); in particolare si tratta di inibitori di proteasi (telaprevir, boceprevir, ecc.), inibitori della NS5A (daclatasvir, ecc.), inibitori della RdRp (sofosbuvir e altri). Gli inibitori di proteasi agiscono su diversi siti catalitici impedendo la scissione della poliproteina virale nei suoi componenti. La capacità inibitoria di questi farmaci dipende da poche specifiche interazioni quindi anche piccole variazioni nei punti critici sono in grado di conferire resistenza, in altre parole, sia gli inibitori di prima e seconda generazione (boceprevir, telaprevir prima generazione; simeprevir, paritaprevir di seconda) presentano una bassa barriera genetica malgrado ne sia stata aumentata la potenza.
Gli inibitori della NS5A, che agiscono sulla fase di replicazione (formazione della rete membranosa) e assemblaggio, sono attivi verso molti genotipi, esibiscono una significativa potenza ma presentano una relativamente bassa barriera genetica e le varianti resistenti persistono per un tempo lungo e anche indefinito.
Gli inibitori della NS5B (la RdRp) sono di due classi: nucleosidi e non nucleosidi analoghi: i nucleosidi analoghi (il primo e più noto è il sofosbuvir) hanno il vantaggio di presentare un’alta barriera alla resistenza: infatti una mutazione del sito attivo cui si lega il farmaco comporta spesso una perdita di efficienza della polimerasi che si traduce in una compromissione del processo di replicazione del virus; questo anche se sono state riscontrate mutazioni che hanno comportato una ricaduta dopo la sospensione del trattamento.
Gli inibitori di polimerasi non nucleosidi analoghi presentano una barriera di resistenza inferiore e vengono usati in combinazione con altri tipi di trattamento.

Sotto la pressione selettiva dei DAA si è visto che possono emergere varianti resistenti che non sono rilevabili prima dell’inizio della terapia; in altri casi, su soggetti con fallimento terapeutico e sottoposti a periodiche analisi con tecniche NGS , si è visto che non presentavano varianti resistenti persistenti ma ne generavano di nuove nel corso del trattamento.

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